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>> Emozioni e radici interiori <<
Durante il convegno a cui ho partecipato sabato, Alessandra Battaglia, attrice e docente di uso della voce, ci ha parlato di "ripulire la propria voce". Con questa espressione immagino la relatrice si riferisca, non solo a un aspetto tecnico (eliminare inflessioni forzate, rigidità, abitudini vocali che “sporcano” il suono), ma anche a un livello più profondo: la voce come canale emotivo e relazionale.
In una relazione di cura, la voce porta con sé molto più delle parole: porta la nostra storia, le tensioni, le emozioni non elaborate, persino i non detti. “Ripulirla” significa imparare a riconoscere e lasciare andare ciò che non appartiene all’altro (es. giudizio, rigidità, automatismi difensivi), per permettere alla voce di diventare un veicolo autentico, accogliente e trasparente che riflette la capacità di “vedere” l’altro e ciò che accade, senza le lenti della nostra storia.
È un po’ come togliere il rumore di fondo che distrae, in modo che ciò che passa sia davvero presenza.
Quello che mi colpisce di questo concetto è che non riguarda solo la voce professionale di chi si occupa per mestiere di relazione di cura, ma anche quella personale: nelle relazioni intime, educative, quotidiane.

La voce non è fatta solo di corde vocali e fiato, ma di memorie, emozioni, abitudini. Ogni parola che pronunciamo porta con sé il timbro della nostra storia: le ferite, le difese, le paure che abbiamo imparato a mascherare o che, di contro, non riusciamo a riconoscere e ci governano inconsciamente.
Per questo, in una relazione di cura, la voce può diventare sia un dono che un ostacolo. Di certo non è un elemento neutro ma influenza in modo significativo le dinamiche relazionali che viviamo.
Ed è questa consapevolezza che mi fa dire che da oggi avrò un altro parametro, un altro strumento con cui osservare ciò che accade nel comportamento umano in più contesti: dal lavoro introspettivo di crescita personale, al lavoro di supporto psicologico ad insegnanti, caregivers, educatori, amici, conoscenti e persino qualcuno che incontro per la prima volta.
“Ripulire la propria voce” significa togliere via ciò che appesantisce e non appartiene al momento presente. Non si tratta di correggere la voce fino a renderla perfetta, ma di renderla autentica, libera dal rumore di fondo delle rigidità interiori. Quando la voce si alleggerisce, smette di trasmettere ansia, giudizio o bisogno di controllo e diventa uno strumento di accoglienza.

Nel Metodo Radici e Ali questo tema trova un posto naturale. Le radici sono la nostra memoria, e nella voce spesso risuonano proprio quelle radici: il tono autoritario che abbiamo interiorizzato, l’urgenza di parlare troppo per paura del silenzio, o al contrario l’abitudine a soffocare le parole per non disturbare.
Ripulire la voce significa riconoscere queste radici, dare loro un nome, e poi scegliere quali portare con sé e quali lasciare andare.
Le ali, invece, sono la possibilità di usare la voce come strumento di relazione autentica. Una voce ripulita non ha bisogno di forzarsi: è chiara, semplice, ma soprattutto è presente.
Ed è nella presenza che si apre la possibilità di cura: perché chi ascolta non percepisce solo informazioni, ma si sente visto, accolto, riconosciuto.
Così, ripulire la voce non è un esercizio estetico ma un atto etico e relazionale a cui tutti siamo caldamente invitati a portare l’attenzione: significa scegliere di mettere la propria storia al servizio della relazione, imparare a riconoscere cosa sporca la nostra voce, senza lasciare che intralci e sporchi anche la relazione.
È un lavoro di consapevolezza che libera e ripulisce la parola, ma soprattutto libera e ripulisce l’incontro.
Questa riflessione nasce da una situazione reale che sto vivendo con il mio secondogenito, che spesso “fa i numeri” al supermercato o al brico: salta fuori dal seggiolino, si arrampica sugli scaffali...
Ho provato diverse strategie, ma nessuna ha avuto lo stesso successo di quando mi sono davvero ascoltata dentro.
Spesso, come genitori, ci troviamo davanti a un paradosso: vogliamo trasmettere regole e limiti per il bene dei nostri figli, ma ci accorgiamo che senza alzare la voce non veniamo ascoltati.
Il grido, infatti, interrompe bruscamente il loro flusso di attenzione e funziona come un “urto” che li ferma. Ma alzare la voce porta con sé anche un senso di disagio, perché sappiamo che non è il modo che vorremmo scegliere.
Ricordiamoci che non è soltanto il tono/volume della voce a fare la differenza, ma l’intenzione da cui nasce. Quando ti fermi un attimo prima di parlare e “ripulisci” la tua voce dentro di te, cioè ti connetti al motivo profondo per cui stai ponendo un limite, allora le parole escono con una forza diversa, autorevole ma non aggressiva.
Questo processo può essere concettualizzato come allineamento tra intenzione e voce. È la chiarezza interiore che rende la voce coerente: tu non stai soltanto “ordinando”, stai incarnando lo scopo per cui quella regola esiste, che è la protezione, la cura, la sicurezza. E i bambini, che sono molto sensibili alla congruenza, colgono questa differenza: più che ascoltare le parole, percepiscono la qualità della presenza che le accompagna.
In altre parole, ripulire la voce significa togliere via l’ansia di farsi obbedire, il bisogno di imporsi, o il timore di non essere ascoltati, e lasciare che emerga soltanto l’intento reale: guidare, proteggere, far crescere.
Così la voce diventa naturalmente ferma, chiara e convincente, senza bisogno di alzare il volume.
“Non è il volume della voce che fa la differenza,
ma la chiarezza dell’intenzione da cui nasce.
Quando il mio intento è pulito,
la mia voce diventa guida e il bambino la riconosce.”

Questa consapevolezza mi ha riportata a un ricordo diverso, ma collegato: quello con i miei cani da cuccioli.
Quando i miei cani erano cuccioli, l’educatore mi aveva insegnato a dire un “no” secco e deciso. Io alzavo la voce e ci mettevo tutta l’energia, ma non bastava: i cani lo percepivano come richiamo materno e non come comando autorevole.
Così ho interiorizzato l’idea che per farmi ascoltare servisse un “no” pronunciato con forza, quasi a imporre la mia presenza. Era faticoso per me e spesso non avevo l’effetto desiderato.
Con i miei figli questa modalità non funziona. In quel “no” loro percepiscono anche il mio disagio, il peso di dover forzare la voce. E ciò che arriva non è autorevolezza, ma incongruenza. Non è un caso che mi sentissi frustrata: stavo ripetendo un modello autoritario ricevuto che non mi apparteneva fino in fondo.
Ascoltando Alessandra Battaglia alla conferenza ho capito che “ripulire la voce” significa proprio questo: fare un viaggio dentro di sé per riconoscere i modelli di comunicazione ricevuti, vedere come ci hanno influenzato e decidere consapevolmente come trasformarli.
Non è questione di forza o di volume, ma di chiarezza interiore.
Quando dentro di me mi autorizzo davvero, quando so che quel “no” ha un intento chiaro (proteggere, guidare, mettere un limite che fa bene), allora la voce cambia da sola. Non ha bisogno di alzarsi, perché porta con sé coerenza. E quella coerenza i bambini la sentono, la riconoscono e la ascoltano.

Queste riflessioni mi hanno portata a pensare anche al mare di informazioni che oggi troviamo sui social. Ci vengono proposte tante strategie comunicative “efficaci” da applicare con i figli: offrire alternative già decise da noi, spiegare il perché di un no, mostrare le conseguenze di un gesto invece di incutere paura con punizioni. Sono strumenti utili, e io stessa li ho provati, ma ho scoperto che da soli non bastano. Restano a un livello cognitivo: funzionano fino a un certo punto, ma non arrivano davvero in profondità.
Perché quello che fa la differenza, nella mia esperienza attuale, non è la strategia in sé, ma il lavoro che il genitore fa dentro di sé.
Ripulire la voce significa, in questo caso, non limitarsi a cambiare la tecnica, ma trasformare il mondo emotivo da cui quella voce nasce. Solo così la comunicazione diventa davvero autentica, e il bambino la percepisce come guida sicura.
Immaginiamo una mamma che ogni giorno si lamenta perché i figli non l’aiutano: non sparecchiano la tavola, non riordinano la stanza, non raccolgono ciò che lasciano in giro. Lei lo dice e lo ripete, ma alla fine è sempre la prima a fare tutto da sola. E quando chiede collaborazione, spesso lo fa frettolosamente oppure con un tono che porta già dentro la convinzione: “tanto non lo faranno”. Il risultato è una voce che non trasmette chiarezza, ma stanchezza e frustrazione.
I figli percepiscono più la convinzione implicita che le parole dette. E così si crea un circolo vizioso: la mamma si stanca, si irrita, si sente sola. La chiave non è trovare altre strategie, ma chiedersi: sento davvero di meritare aiuto?
Il punto è che questa modalità non nasce nel presente, ma da un copione antico. Magari da bambina ha imparato che alla fine tutto ricadeva su di lei, che non c’era nessuno a cui chiedere davvero sostegno, o che arrangiarsi fosse l’unico modo per cavarsela.
E senza rendersene conto, ripete lo stesso schema nella relazione con i suoi figli: chiede, ma dentro di sé ha già validato l’idea che non verrà ascoltata.
Il risultato è una voce che non trasmette chiarezza, ma stanchezza e frustrazione. Non è un “mi aspetto che tu mi aiuti perché so di meritare collaborazione”, ma un “so già che non lo farai”. E i figli, che captano la coerenza più che le parole, finiscono per rispondere proprio a quell’intenzione implicita: non si attivano, o rimandano, rafforzando il senso di impotenza della mamma.
Questo porta a un circolo vizioso: lei si stanca sempre di più, si irrita, perde la pazienza, si sente sola e non riconosciuta. Ma la chiave non sta nel trovare nuove “strategie da manuale”, bensì nel fare un lavoro interiore: domandarsi se davvero sente di meritare aiuto, se si autorizza a chiedere senza sentirsi debole o in colpa.
Perché la voce, quando nasce da questa chiarezza, esce diversa: non chiede per disperazione, ma per diritto.
Quindi, non è la tecnica comunicativa a determinare la risposta dei figli, ma la coerenza tra ciò che sentiamo di meritare, l’intenzione che ci guida e il suono che produciamo.
La voce porta fuori le nostre ferite tanto quanto le nostre risorse.
La voce non è solo suono, ma il riflesso di un mondo invisibile che ci portiamo dentro: memorie, ferite, copioni emotivi che spesso ci condizionano senza che ce ne rendiamo conto. È da lì che nasce l’incongruenza: chiediamo una cosa, ma dentro di noi ne crediamo un’altra. E i figli, come chiunque ci ascolta, non rispondono alle parole, ma alla verità che quelle parole portano.
Ripulire la voce significa allora fare un viaggio dentro di sé, portare alla luce quell’invisibile che ci condiziona, diventare consapevoli dei nostri intenti profondi e sceglierli. Solo così la voce può farsi strumento di guida, di relazione e di cura. Solo così la comunicazione diventa davvero efficace: quando ciò che diciamo e ciò che siamo finalmente coincidono.
Il titolo dell’intervento al convegno era “Il ruolo della voce nella relazione di cura”, e credo che il messaggio più autentico sia questo: non basta imparare nuove tecniche comunicative, serve un lavoro di consapevolezza sulle nostre ferite.
Solo così la voce diventa coerente, autentica e capace di cura.

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Mariarosaria Rapisarda Psicologa e creatrice del Metodo Radici e Ali. Aiuto le persone a trasformare le emozioni, riscoprendo la loro autenticità e presenza.
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